Annamaria Franzoni
il delitto di Cogne
Italia – 1 vittima
Il delitto di Cogne è stata probabilmente la prima volta in Italia che un omicidio (un infanticidio per la precisione) venne dato in pasto ai media con un tale spiegamento di mezzi e con una sovraesposizione così massiccia. Protagonista assoluta era la madre della vittima che coincideva con la principale sospettata nonché, alla fine, con la colpevole: Annamaria Franzoni. I media compirono una sorta di inchiesta parallela agli inquirenti e questo non aiutò le indagini, anzi venne sfruttata per sviare, screditare, mettere pressione agli organi competenti.
Annamaria Franzoni nacque nel 1971, si sposò nel 1993 con Stefano Lorenzi e assieme si trasferirono a Cogne, in Valle d’Aosta, dove ebbero due figli: Davide e Samuele.
Il delitto avviene il 30 gennaio 2002. Ricostruendo gli avvenimenti di quel giorno si ha una fitta cronologia. Alle 5:30 del mattino, Stefano Lorenzi chiamò la guardia medica perché la moglie stava male, tremori, nausea, formicolii, in seguito si suppose fosse un attacco di panico. Alle 7:30 il marito uscì per andare al lavoro mentre Annamaria Franzoni si apprestava a preparare la colazione per il figlio Davide (di 6 anni). Samuele (di 3) dormiva ancora. Alle 8:16 uscì per accompagnare il maggiore a prendere l’autobus per la scuola, al rientro alle 8:24 trovò Samuele morente a letto. Il piccolo era stato colpito diciassette volte con un corpo contundente alla testa, c’erano schizzi di sangue ovunque, dal cranio era fuoriuscita materia cerebrale. Annamaria chiamò subito il medico di famiglia, Ada Satragni, che abitava poco lontano, affermando che al figlio “era scoppiato il cervello”, alle 8:28 telefonò al 118 asserendo che il bambino “aveva vomitato sangue”, alle 8:29 toccò al marito al lavoro, gli disse che Samuele “era morto”. La dottoressa Satragni appena giunse sul posto cercò di rianimare il piccolo, gli lavò la ferita e lo spostò dal letto: la scena del crimine così era stata inevitabilmente inquinata. Alle 8:50 arrivarono i soccorsi, si accorsero subito che il bimbo era stato colpito più volte e che non poteva trattarsi di un malessere o un incidente, avvisarono subito i Carabinieri. In ospedale, alle 9:55 venne dichiarata la morte di Samuele.
Gli otto minuti in cui la madre era stata lontana da casa paiono subito pochi perché un estraneo si introducesse in casa e uccidesse Samuele. Con che movente inoltre? Successive perizie suggerirono inoltre che Samuele doveva già essere in quelle condizioni quando la madre era uscita per accompagnare l’altro figlio a prendere l’autobus. Inquietante inoltre la frase che i Carabinieri sentirono pronunciare ad Annamaria Franzoni al marito mentre i medici portavano via in elicottero il piccolo Samuele, “facciamo un altro figlio, mi aiuti a farne un altro?”.
L’arma del delitto, nonostante le accurate ricerche e ricostruzioni non è mai stata né trovata né identificata con sicurezza. Vennero trovati però il pigiama e le ciabatte, entrambi macchiati di sangue, della madre. Le perizie dei RIS indicarono che l’assassino per colpire era salito sul letto a cavalcioni sul corpo della vittima, le tracce di sangue prodotte dal gesto violento combaciavano con le tracce sul pigiama.
Durante gli interrogatori che ne seguirono le dichiarazioni della Franzoni furono contraddittorie. Annamaria fu ospite di innumerevoli programmi tv e interviste, si dichiarò sempre innocente tra lacrime facili e sceneggiate teatrali che spaccarono l’opinione pubblica a metà. Poteva aver compiuto il delitto e averlo rimosso dalla sua mente? Le congetture sulla sua situazione mentale furono oggetto di discussioni tra gli esperti ma lei rifiutò perizie psichiatriche.
Ci furono persino tentativi di depistaggio con “prove” rinvenute a distanza di anni. Si cercarono di spingere le indagini verso “vicini gelosi” o che “volevano fare un dispetto alla famiglia”, ma gli inquirenti non trovarono mai nessun riscontro.
Nel 2004 la donna venne arrestata, poi processata e condannata a trent’anni di carcere, nel 2007 in appello la pena venne ridotta a sedici anni, sentenza poi confermata in Cassazione. In conclusione scontò sei anni di carcere e cinque di detenzione domiciliare, è libera dal 7 febbraio 2019.